Gli anni ‘80 del XIX secolo per Renoir sono quelli del disorientamento creativo, gli anni durante i quali mette profondamente in discussione i propri raggiungimenti artistici: … Sono come i bambini a scuola… Sono ancora alle macchie e ho quarant’anni. Alla soglia di quell’età sente la necessità di cambiare rotta: le critiche mosse agli impressionisti, comprese le accuse di portare avanti una pittura incompleta e incapace di conquistare uno stile e una forma, non gli sono indifferenti e fanno breccia. Sente di trovarsi in un vicolo cieco: dipingere lungo la Senna lo aiuta ad accendere solari cromatismi, ma non a trovare la giusta densità di significati per come lui intende la pittura. In questo contesto di riflessioni si inseriscono i viaggi che in quel periodo intraprende, prime fra tutte le tappe italiane, viaggi che incoraggiano un radicale cambiamento. Nuovi stimoli e nuove istanze culturali che il trentottenne Renoir incontra esaudendo il desiderio di girare un po’ di mondo finché una salute già instabile glielo consente. Dopo Algeri, sulle tracce dell’esotismo di Delacroix, approda in Italia per studiare, stavolta sulle tracce di Ingres, l’arte antica e i maestri del Rinascimento. Qui riemerge l’antico amore per il museo, coltivato in giovinezza tra le mura del Louvre, che lo guida a ricercare una diversa sintesi pittorica sulle suggestioni dell’arte del passato.
Un soggiorno, quello italiano, portatore di notevoli conseguenze nella sua opera. Sensibile ai cambiamenti della cultura figurativa, Renoir, pare trovare nell’arte classica italiana la risposta alla sua ricerca del “bello”, dove poter riassumere armonicamente spazio e luce, disegno e colore.
Contraddicendo le iniziali posizioni di biasimo su una rigida educazione classicista che lo avevano portato ad attaccare l’École-des-Beaux-Arts, e la disapprovazione verso l’incapacità di certi autori di liberarsi dall’ossessione del passato, in quel momento, pur non smentendo mai del tutto l’esperienza rivoluzionaria degli anni della formazione, trova importante poter vantare di conoscere l’Italia e aver studiato Raffaello. Sono stato a vedere Raffaello a Roma. È una bellezza, avrei dovuto vederlo prima. È pieno di sapienza e saggezza. Nei quadri a olio preferisco Ingres. Ma gli affreschi sono ammirevoli per semplicità e grandiosità.
Se, nel paesaggio mantiene le caratteristiche più o meno impressioniste, è per la figura che torna al lavoro di atelier, a curare accanitamente il disegno e allo studio delle tecniche tradizionali. Renoir mette a punto un gusto più attento ai volumi, alla solidità dei contorni, alla monumentalità delle immagini, a un progressivo rigore del colore fino ad affermare: «Ero arrivato al punto estremo dell’impressionismo e dovevo constatare che non sapevo più né dipingere né disegnare».
Venezia, Roma, Napoli, Capri e la Sicilia sono le tappe principali. A Venezia non sono solo i nuovi incontri a colpirlo, come quelli con la pittura di Carpaccio e Tiepolo, ma anche le caratteristiche stesse della città, il rapporto con l’acqua e con la luminosità del sole che trasforma il reale. È Roma, però, con la potenza della sua luce a convincerlo della assoluta superiorità dell’arte italiana, un’arte dotata di una monumentalità così eterna che l’Impressionismo non potrà mai eguagliare. Le forme compatte e la luce diffusa della pittura di Raffaello hanno su di lui un impatto molto forte, esattamente quello che vuole nella sua pittura: «Raffaello, che non dipingeva all’aperto, aveva però studiato la luce del sole, perché i suoi affreschi ne sono pieni. Io invece, a forza di guardare all’esterno, ho finito per non vedere più le grandi armonie, preoccupandomi troppo dei piccoli particolari che offuscano il sole anziché esaltarlo». È dalle morbide e carnose donne di Raffaello che nascono le sue future figure femminili, tema che diventerà tra i suoi favoriti in una sua visione ideale, grandiosa e opulenta.
A Napoli si entusiasma per gli affreschi pompeiani, è incantato dal senso di realtà contemporaneamente concreta e ideale che si legge in tutte quelle raffigurazioni. Qui realizza alcuni quadri che annunciano le direzioni future della sua opera, lavori dove cerca un punto di incontro tra il realismo moderno e la composta monumentalità degli antichi.
A Palermo incontra Richard Wagner che ritrae in un’opera divenuta famosa, anche se non si può dire che tra i due sia scoccata una qualsiasi scintilla visto che il compositore gli concede poco più di mezz’ora di posa senza neppure apprezzarne pienamente il risultato che, anzi, commenta: «Ah! Sembro un prete protestante».
Un percorso che circoscrive un periodo preciso nella parabola artistica di Renoir accolto dalla maggioranza della critica come una fase di “smarrimento”, sostenendo come nel giro di due anni egli abbia completamente distrutto la splendida arte cui si era dedicato per una vita. D’altronde, se negli anni precedenti vibra vicino alle corde dell’Impressionismo e percorre l’interesse tipico di quel movimento di voler rappresentare la vita moderna, in quel momento sente di voler cambiare rotta e passare a uno stile più aspro, aigre, preferendo dedicarsi a una raffigurazione, pur sempre in chiave moderna, dell’eterno e del senza tempo.
Proprio il tema di questa svolta artistica è al centro della mostra Pierre-Auguste Renoir: l’alba di un nuovo classicismo (a Rovigo in Palazzo Roverella fino al 25 giugno prossimo): la svolta che segue l’incontro diretto con la luce dell’Italia e con i maestri del passato che lo porta a una vera e propria rivoluzione creativa e che culmina con l’abbandono della tecnica e della poetica impressioniste. Il suo stile cambia. Nei primi due decenni del Novecento, Renoir dipinge in un possente stile neo-rinascimentale dove i toni caldi e scintillanti mutuati da Tiziano e Rubens si coniugano con i riferimenti a un’iconografia mitica e classicheggiante. In questo modo passa a dar vita a un’arte che, mentre si scatenano le avanguardie, costituisce una precoce avvisaglia della sensibilità che sarebbe divenuta dominante appena dopo il conflitto mondiale. Renoir anticipa in tal modo vari aspetti del cosiddetto rappel à l’ordre: quella che superficialmente a non pochi è apparsa come un’involuzione e che, in realtà, è una premonizione di molta pittura e scultura che si sarebbero sviluppate tra le due guerre.
La mostra di Rovigo si concentra proprio su questa trasformazione artistica del pittore francese: a partire dal ritorno dal viaggio in Italia sino alle opere della vecchiaia, dapprima, evidenziando le vicinanze con Giuseppe De Nittis, Federico Zandomeneghi, Giovanni Boldini e Medardo Rosso, italiani attivi a Parigi, e poi, ponendo in risalto l’originalità di una produzione che costituisce uno dei primi casi di “moderna classicità” in seguito perseguita da numerosi artisti degli anni Venti e Trenta.
Iniziando con un capolavoro della stagione impressionista di Renoir, il grande studio preparatorio a olio su tela del celeberrimo Moulin de la Galette, l’esposizione di Rovigo intende misurare la deviazione via via sempre più netta da quel linguaggio. Un’indagine su quell’evoluzione che, a partire dagli anni Ottanta del XIX secolo, segna l’inizio del progressivo allontanamento di Renoir dall’esperienza impressionista e che si evolve nella monumentalità classicheggiante e “neorinascimentale” delle figure fino ai paesaggi della Provenza e della Costa Azzurra.
Una ricerca che non trascura l’indagare sia sui rapporti con altri artisti, sia sulle “assonanze” con chi, nel periodo del “ritorno all’ordine”, ne mediterà e assimilerà la lezione. Un’esplorazione che pure non tralascia il fil rouge del racconto biografico delle vicende personali dell’artista, anche sulla falsariga della biografia che il figlio Jean, celebre regista, dedica al padre all’inizio degli anni Sessanta del Novecento (Pierre-Auguste Renoir, mon père).